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Consumo di suolo come paradigma di un modello di crescita sbagliato



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Per andare avanti con la schiena dritta dobbiamo crescere, espanderci, creare. Altrimenti non va bene, altrimenti non possiamo raggiungere il risultato. Dobbiamo essere grandi e grossi, e poi cercare di esserlo sempre di più.


Questa chiave per il successo si manifesta su un largo spettro e vale un po' per tutto: vale a livello economico, vale a livello culturale e personale. Vorrei riflettere sulle conseguenze dell’applicazione di questo modello e su quale impatto ha rispetto a quello che ci circonda ma è allo stesso tempo fondamenta ed ostacolo al progresso: il suolo.


I Paesi industrializzati, a partire dagli anni ’50 del secolo scorso, hanno vissuto un incredibile sviluppo economico e relativo miglioramento delle condizioni di vita, complice un forte progresso tecnologico. L’applicazione di quest’ultimo è costata, spessissimo, un impatto rilevante e non trascurabile sull’ecosistema. L’essere umano si è espanso e si sta espandendo goffamente in virtù delle richieste dei vari segmenti economici. Se l’industria chiede economie di scala, costruiamo fabbriche, luoghi di estrazione, reparti di logistica; Il turismo ed il benessere economico domandano nuove abitazioni? Costruiamo palazzi, palazzine, appartamenti; se l’agricoltura deve accelerare, sfruttiamo intensivamente i campi e costruiamo serre – emblematico è il caso della zona di Almeira, in Spagna: qui c’è un cerchio di terra che già da immagini satellitari possiamo notare come stranamente bianco a causa di una densità di serre incredibile.


L’Italia è un esempio rilevante per capire gli impatti di questi ultimi casi. Il boom edilizio che ha coinvolto il nostro Paese fra gli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso, ha stravolto la fisionomia di moltissimi dei nostri centri abitanti, piccoli o grandi che fossero, inglobando le vecchie borgate in un’espansione dissennata e cacofonica. Basti pensare al cosiddetto Sacco di Palermo, in cui il piano regolatore della città è stato stralciato affinché ampie schiere di costruzioni, comprese numerose villette Liberty che costituivano l’anima della città, lasciassero spazio ad un fitto manipolo di condomini. Questo caso è emblematico, aggiungo, di come la regolamentazione nel Paese non sia sufficiente ad evitare dei disastri, perché non c’era e non c’è ancora la sensibilità adeguata nei confronti dell’ambiente. E sebbene il Nord del Paese si faccia spesso baluardo del rispetto delle normative, non è un mistero che le regioni Lombardia e Veneto abbiano un tasso di consumo di suolo del +14%/anno, in netto contrasto con la media europea del +5%/anno. Lo stesso Paese con più case pro-capite in Europa, lo stesso Paese in cui la velocità di consumo di suolo è stata di 2.4 metri quadrati al secondo.


Come arrivare all’obiettivo? Oggi la chiave del successo economico passa sempre più spesso per questo concetto: “logistica”. E’ lei il deus ex machina. Connettere, mettere in comunicazione, trasportare, facilitare. Siamo legati ad una accezione troppo antica di questo termine. Per il politicante medio, soprattutto in Italia,  l’esecuzione di questa parola avviene tramite la costruzione in primis di nuove strade asfaltate, in secundis, se va bene, di ferrovie – rare. Lo facciamo, però, pensando al territorio come incubatore di logistica, luogo di passaggio, quando in realtà, dovremmo rispettarlo e pianificare le nostre azioni in maniera strategica, oltre che sensata. La costruzione di nuove autostrade, è un modello latore della vecchia strategia del trasporto su gomma, il cui potenziamento mal si sposa con i nuovi paradigmi di mobilità sostenibile; e lo stesso, inoltre, facilmente crea quello che nel marketing si chiama “fenomeno della domanda indotta”, nella fattispecie teso ad alimentare, paradossalmente, il volume di traffico. Ecco cosa intendo: se in una autostrada a 3 corsie, si passa a 4 e poi a 5 non è affatto detto che lo stesso volume di traffico si spalmi su una rete maggiore, facilitando il flusso. Spesso, bensì, capita il contrario: l’utente, a livello aggregato, è invogliato ad alzare la domanda verso l’infrastruttura, per cui il livello di traffico aumenta in maniera direttamente proporzionale con l’innalzarsi del numero di corsie autostradali, come insegna il caso della americana Katy Freeway, a Houston – ma è solo uno dei tanti. Il potenziamento della rete infrastrutturale di trasporto, quando davvero necessario, deve assolutamente tenere conto del contesto in cui viene calato. I Paesi occidentali, oggi, hanno un livello di antropizzazione estremamente elevato a tutti livelli e l’aumento di questo impatto crea un consumo di suolo con effetti a cascata. Un nuovo ramo di ferrovia, per esempio, rischia di spezzare i corridoi ecologici di comunicazione della fauna selvatica, non consente l’accesso a fonti d’acqua, cibo e riducendo l’areale percorribile, soprattutto quando il contesto è un Parco Nazionale o una riserva naturale. Sarebbe più facile se si prendesse qualche accortezza, come tunnel o viadotti sopraelevati per salvaguardare almeno parte di quella comunicazione che si è spezzata ma siamo troppo spesso ben lontani da queste larghe vedute.

 


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1. Nell'immagine, la mappa delle aree a bassa influenza dell'essere umano (in verde). In Europa sono quasi assenti, così come in gran parte dell’occidente (fonte)

 

Più natura vuol dire benessere con la “B” maiuscola. Vuol dire Benessere inteso come respirare a pieni polmoni aria pulita, come l’odore dell’erba la mattina presto, come riposare sul prato sotto un leccio. Non voglio neanche scomodare vantaggi come il controllo delle temperature o la mitigazione dei fenomeni meteorologi estremi perché sono ormai chiari e sarebbe quasi troppo “utilitaristico” citarli.


Più natura vuol dire senso di completezza, gioia, bellezza. Ci sono contesti in cui penso che si cresca e si viva meglio. Crescere nel grigiore e nel cemento di una grande città avrà pure i suoi vantaggi: si, ci saranno servizi, opportunità, centri sportivi attrezzati, ma penso che vivere in un contesto meno urbanizzato possa conferire più consapevolezza, più interazione, più sicurezza.


Ma allora si tratta di una necessità economica o possiamo andare oltre questo sillogismo? Secondo me possiamo superarlo, eccome. Ci ha tradito una visione sbagliata: lo abbiamo applicato senza prospettiva, nell’ottica di risorse infinite. Oggi c’è una nuova consapevolezza ma è presto per vedere la luce in fondo al tunnel. Le politiche di tutela del suolo e sostenibilità nei modelli di crescita sono ancora tiepide e l’impatto è spesso più dialettico che concreto. Ad oggi i tratti distintivi sono episodici. Nella città di Milano, ad esempio, alcuni piccoli tratti di strade asfaltate in periferie sono stati sradicati per lasciare che il suolo potesse tornare a respirare; sull’Appennino, inoltre, alcune comunità si stanno ri-organizzando per sposare una cultura di rewilderness, volta a limitare l’antropizzazione nei luoghi sensibili protetti dai Parchi Nazionali attraverso modelli di sviluppo sostenibili.


Io credo che questa sia la chiave di lettura corretta. L’abitudine di avere ogni tipo di prodotto disponibile in qualsiasi piccolo supermercato di provincia ci porta inevitabilmente a richiedere a monte allevamenti intensivi, coltivazioni “dopate” e, dunque, un impatto sul suolo e sulla natura in generale. Ma abbiamo davvero bisogno del sale rosa dell’Himalaya? Abbiamo davvero bisogno di 5 o 6 tipi di tonno in ogni supermercato? Possiamo vivere più che dignitosamente senza viziarci. Questo non vuol dire regredire, questo vuol dire avere quanto basta. Certo, magari un po' di più di quanto basta, magari qualche sfizio ce lo possiamo anche levare ma sono certo che con qualche compromesso possiamo davvero salvare il mondo.



 

Se ti è piaciuto questo articolo, parliamo di consumo di suolo anche nel podcast "Act Local". Trovi gli episodi sul sito oppure al link qui sotto:



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